Si lasciano tracce di sé, anche senza volerlo. E questo è un lusso che consente di tornare indietro in alcuni momenti, e misurarsi coi confini, le rimostranze, ogni punto che resiste e che cede se lo si preme forte: le cose si sciupano anche soltanto con l’insistere del tempo. Ma lo fanno prima, sotto il peso dell’abbandono. Viverle significa dare loro nuova vita, anche quando sono rotte, ammaccate, sfinite. Qualche giorno fa mi sono ricordata che esisto. Mi sono sorpresa per un gesto semplice, e mi è caduto addosso tutto il peso di un’assenza prolungata, delle mie mille fortezze, della compostezza solo apparente, che mi costa troppe frane che nessuno vede mai. Mi sono fatta tanto fragile da professarmi forte agli occhi di chi non sa. Da convincermi che in me è tutto talmente sbagliato, fino a non potermi ammettere se non col desiderio di sparire, ingoiato a denti stretti mentre sorrido.
I sorrisi del resto, non sono mai uguali. Ci sono quelli da “io non ho bisogno di nessuno”. Quelli da “certo che sono portata per i lavori di gruppo. Sono una leader nata!”. Esistono i sorrisi tra sconosciuti, pratica in via di estinzione; e i sorrisi maliziosi, di intesa, o dolorosi. Esiste il ghigno che un po’ di più e tanto di meno, al contempo. Il sorriso ad occhi chiusi che si deve alle cose buone, a chi gode, a chi finalmente può dirsi a casa. E il sorriso che si sente e non si vede: quello delle chiacchierate al telefono con chi si vede poco, pochissimo. E che nel mio caso coincide con chi mi ha salvato un pezzo di vita morta, inesistente, fredda e chiusa, in continua apnea. E neppure lo sa.
Ho fatto un passo indietro ed eccomi qui.
Non c’è niente di uguale, in me. Non c’è proprio niente di diverso.