La distrazione è la più grande invenzione dell’uomo per andare avanti. Per simulare quello che non siamo. Perfetti per questo pianeta. Avevo deciso di andare in vacanza. La scelta era ricaduta in un luogo dove i miei, abitualmente, passavano l’estate. Avevo, perfino, stabilito un topic su cui impegnarmi. Aspiravo ad una ricerca intima, misurata. L’ho chiamata “Alla ricerca della misura perduta”. Da qui la predilezione di bandire feste inebrianti, fumi alterati, piste bianche, liquori scozzesi e donne socievoli (quest’ultime allontanate anche quando non sono in vacanza). Insomma solo il nulla eufuistico. Scabro sì, ma spirituale. Ma ecco che, giuda ballerino, appena arrivato a destinazione, potevo già sfiorare tutta la mia insufficienza. Incredulo come un calamaro steso al sole, davanti a me, un agglomerato di gitanti di moderna concezione, galleggiavano da una strada all’altra, vanagloriosi e grossolani, abbigliati da una uguale e circoscritta pienezza: la cafonaggine. Tutta una competizione. Un campionato di serie B, ma pure di C1,C2 e Lega dilettanti, su chi conosceva questo, quello o quell'altro. Su chi bazzicava i locali più esclusivi. Un'arroganza, che alla mia età, non puoi più identificare come il sigillo del piacere. In conclusione avevo individuato tutta una disinvoltura di sballati da benzoilmetilecgonina che avevano da poco finito di segarsi con le mani. Una voracità da svago zotico, una calcolata percezione di burrascoso che non crea burrasche. Ma non è periodo da porsi interrogativi così inoltrati, dal momento che è una vita che faccio della mia mancanza di ideali, di passioni e via discorrendo, la mia più autorevole conoscenza intellettuale. Però non avendo mai rinunciato al trono dell’inviolabile percezione emotiva (apri le porte, chiudi le porte), non ci ho pensato un istante. Ho chiamato il tassinaro e me sono andato all’aeroporto. Destinazione Roma, paradiso città. La mia presenza in quel luogo era durata esattamente quattro ore e trentasette minuti. Un gesto doveroso, un atto necessario, un affermazione del mio io affrancato, che mi ha obbligato, durante il rientro, ad infilarmi il pigiama della malinconia. Sono germogliato e successivamente sbocciato in quel paese cristallino e incorrotto. Un luogo in cui i vigili una volta, riuscivano a disciplinare un traffico immaginario. Ora mi era insostenibile guardare gli ebreniaci mimetizzati da imprecisate spore ischio rettali che non possedevano minimamente quello che ci avrebbe potuto associare: il silenzio dell’emozione sospesa. Perché una cosa è inconfutabile, l’uomo deve saper segnare i limiti estesi della simulazione, giusto per rallentare la produzione intimistica allo sdrucciolevole colare della melma rinsecchita.
Mi chiamo Mr. Klein.
Mi piace ascoltare, mi piace leggere. Qualche volta scrivere, anche se a capire sono solo io. Mi piacciono quelli che combattono, che bruciano di passioni, che danno la vita per i loro ideali.
Io no. Non concludo mai. Perché sono privo di passioni e di vanità. Anche se tutti pensano che io sia immodesto e lussurioso. Ma la verità è che i vanitosi, quelli veri, simulano. Perché non possiedono alcuna aspirazione, devono solo discolparsi della loro presenza su questa terra. In fondo, la vanità è mancanza di desiderio.
Mi chiamo Mr. Klein. Ma questo l’ho già detto, forse perché non so cosa dire.
A dieci anni ho visto mio padre andare via di casa, per poi fare ritorno l’anno dopo. Accolto da mia madre come un re. In quel periodo di tempo intercorso non ho mai sentito la sua mancanza. Nemmeno ora.
Ho provato anche a rivelare un certo dolore. Ma non quello che ti trascini dentro, parlo di quello reale, che non ha prezzo. A volte ci penso, anche se è difficilissimo. Perché il dolore ti insegue e, per quanto superficialmente privo di significato, non riesci a liberartene.
Ed è per questo motivo, forse, che non ho mai accettato me stesso attraverso le relazioni con le donne. Perché, fondamentalmente, le donne mi sono interessate solo in una certa dimensione. O forse perché volevano cambiarmi, volevano comprendermi, per poi abbandonarmi. Senza presupposti. Donne possedute dalla gelosia, sorrette nell’enorme mansione di accettare loro stesse. Di tonificare l’io perennemente zoppicante, disorientato. Eppure, nel profondo della mia negligenza, sono stato sempre felice quando sono stato, poi, furiosamente lasciato.
Tutto questo fino a quando non incontrato Lei. Che mi ha fatto innamorare. Perdutamente. Staccandomi dallo stordimento del dormiveglia, dalla svogliatezza, dalla noncuranza, dall’ indifferenza passiva per qualunque essere umano. Si perché noi, entità umane, ci innamoriamo. E come se non bastasse, lo realizziamo in situazioni impenetrabili, impensabili, con personalità o individui che fino ad un momento prima svolazzavano astrattamente nel nostro individuale principato del cazzo.
Oggi, mia cara principessa, ti dirò una cosa. Domani verrò da Te, profumato di me, in questo inverno che non elargisce niente. Suonerò il citofono di casa tua. Anche se ho il cuore basso e non ci arriva. E ti converrà aprirmi, perché ti chiederò scusa, per ieri. Così potrai restare sbottonata, disarmata, arrendevole. Senza dubbi da addentare, incertezze da strappare. Dove tu sarai in me ed io in te. Senza limiti, rigirando la mia vita tra le tue dita. Tutto questo si chiama fede, ed è davanti all’amore.
Sono Klein, solo per i benevoli. Per te sono… lo sai benissimo chi sono.
Faccio sempre strani sogni io. Sogni privi di pubblicità. Sogni che arrestano il veloce istante di tutte le mie soste sotterranee. Ho undici anni, adesso, e mia madre mi stringe per mano. Muovo la testa alla mia sinistra e c’è anche mio padre. E’ domenica mattina, tratteggiata e scottante. Una domenica come le altre, una domenica che non ricomparirà mai più. Passeggiamo lungo via dei Giubbonari. Vesto con fierezza una polo blue. Fa caldo ma ho le mani fredde. E sono contento, perché mi sento tranquillo. Come non lo sarò mai più. I miei sono allegri. Non hanno discusso. Mio padre fa i complimenti a mia madre. Dice che le sta bene una camicia rosa con la stampa di piccoli fiori. Mia madre sorride stupita. Perché qualsiasi lusinga che fuoriesce dalla cavità orale di mio padre è così singolare, da sembrare imbarazzante. Poi improvvisamente, senza ragione, chiedo se moriranno, come i nonni. E loro, senza scomporsi e con matura certezza, mi rispondono che non scompariranno mai. Io ci credo, mentre sopra ponte Fabricio, guardo il Tevere colare tranquillo. Invece mi stavano semplicemente ingannando. Da quel momento, sono iniziate tutte le mie difficoltà. Il mio fluttuare nello sconclusionato. Le proprietà che interpellano solidità ordinarie. Intanto la luna è sparita. Il sogno è concluso. Eppure, io da quel momento, non mi sono più svegliato. Ancora un attimo 5.13, ancora un attimo. Che arrivo da te.
Sono andato nel rione Regola, ieri. Dove sono nato. Era un bel pezzo che non ci passavo. Il palazzo non lo dico e sapete il perché. E se non lo sapete sono cazzi vostri. E’ sempre lo stesso, da seicento anni al mondo. Avrei voluto flussarlo con la luce, con le anime morte.
Cinquecento anni di vita e cinquecento anni di morte. Qualche suicidio illegale, qualche stupro templare, e qualche morto ammazzato. Quelli dell’ordine dei servi di maria, un giorno, murarono viva una monaca sconsacrata. La notte usciva, dal sonno profondo, a lanciare per terra piatti e bicchieri. Uno svago scherzoso, dicevano, per un amore mai più posseduto. E li ho ritrovavi tutte lì, le presenze invisibili. Pronti a mostrarsi tra stanze vetuste, scaloni di marmo e brividi di freddo. Silenziosamente ho risucchiato nell’aria i giorni passati.
Certi proiettili non hanno ore, non hanno tempi, non hanno bersagli. Perché i morti ti bussano sempre, anche se non stai dormendo. E c’è un momento in cui ti domandi se il prossimo, tra quella linea, sarai tu.
Eppure ho avvertito il profumo del calicanto. L’arrivo del sole, ed una mano che mi accarezzava i capelli.
Ci sono giorni che incominciano quando ormai è buio. Attraversano piogge monsoniche, profetizzandosi, dopo, in sogni sigillati. Ci sono giorni che ti scuotono fino a quando non fa luce, si trainano tagliuzzati, come lamine oscure. E ci sono giorni in cui bisogna allenare la respirazione, per non gridare o strappare cartoncini già scritti.
Domani sarà un giorno speciale per te. Minuscole cose accenderanno una fiaccola, capace di soffiare via, sciami violacei e scrosci corvini. Domani ti cercherò, come sempre, come tutti i giorni, annusandoti attraverso le parole. Saremo particelle di un fulmine, frammenti di una strada biancastra. E sentiremo il fruscio continuo del nostro destino. Domani ti sentirai nuda, tra brezze e correnti, distesa in un telo d’arancio, asimmetricamente orlata da baci marini, disciolti.
Ti ho fatto un regalo. L’ho scovato in quel bosco, in mezzo alla neve, tra le luci di nebbia nostrana: è un destriero di giada. La dea Tychemi ha detto che porta fortuna. L’ho stretto tra le dita, chiedendole di farti felice. Oggi, però, respira lentamente. Io intanto miscelo le foglie, preparo il mio mate.
In alto all’albero maestro la vela è ammainata. Ci sono bottiglie sparse sul deck. Sono quello che resta del giorno. Chimere dorate, soffiate e sfumate, che si sono inseguite tra vaniloqui, nell’instabilità del nulla. Lo sloot adesso è ormeggiato. Ingerisce il suo nuovo ciclo di vita, tra i consigli da dare e quello da fare. Tutto raccolto nel mio giubbotto di cerata blu, con i miei braccialetti colorati e le corde che si sciolgono tra le mani.
E poi la luce che atterra. Sulla linea di un tramonto distante, da fermare tra le dita di una mano, per lanciarlla finalmente lontano in una esistenza a divenire. Chissà cosa penseremo, quando parleremo di questi giorni. Quando ci tornerà in mente questo inverno. I miei desideri, la tua bella grafia e tutti gli impercettibili passi che abbiamo fatto senza riflettere, senza apprensioni, senza se.
In mezzo a tutto questo silenzio, in mezzo a questo fruscio, che non sa quello che scrivo, ho scelto di scrivere di te, che poi è parlare di me. Tu che mi sei vicino, in questo inequivocabile istante, tra gli avanzi delle ore, ti nascondo nelle tasche, dividendoti nel mio dovunque, sottraendoti ai condizionali, nei segmenti che riempiono certe distanze.
Adesso, sei di fronte a me, sdraiata, nella trasparenza della tua cioccolata calda. Forse dovrei smettere di scrivere. Un giorno lo farò.
Lo sai che sono un Angelo? L’Angelo che viene dalla tempesta, pronto a scomporsi ad intermittenza eterna. Lo sai che sono un demone, in attesa del perdono. Un libertino che indugia nel vizio. Uno scorpione senza coda. Un apollo ingobbito. Un cantastorie vestito di stracci e ricami di seta. Uno che salda i debiti ai debitori, corrispondendo a tutti illusioni soggettive, in percentuali di emotività. Lo sai che omaggio sempre cose pregiate e rastrello doni che non posso accettare? Che sono imperfetto. Senza successo. Disilluso per concedermi a chi vuole afferrarmi, perché non si può. Perché non sono vero. Perché sono una preghiera corrotta, un verso difettoso, un amore inconsistente. Perchè sono un principe e sono un suddito. Sono spada e sono velluto, sono seme ed effetto. Un irrequieto senza se, che attende l’Armageddon. Sono Io. Ma Tu, però, si proprio Tu, stammi vicino, non lasciarmi solo.
Non c’è più carenza di temporali e, questo aumenta la mia silenziosità, trattenendo gli equilibri. Come il chiarore candido di tutte le tinte dell’iride. Ed origine di tutte le mie trasformazioni. Ogni tanto ho degli incubi, mi afferrano all’improvviso squarciandomi di netto la gola. L’ultimo è stato terribile. In compenso però realizzo banchi di sabbia e camere d'aria pressati in vasetti d’inchiostro. Sono diventato più abile ad amministrare la sofferenza fisica. La dottoressa mi ha diminuito la quantità di medicine. Sebbene riuscire a dormire, rimane ancora un po’ difficile. Ma sto incrementando la mia capacità di resistenza fisica. Per le angosce, lo spasimo, quello inconfessato, quello che ulula e freme, quello che mi raschia il cuore, fino ad arrivare in testa, quello non riesco ancora a sedarlo. Anche se provo a viaggiare con i soliti mezzi, tentando di stordirmi e sopprimermi parallelamente. Ho ancora i miei superpoteri per scomporli. Adesso passo a disegnare dei lati che strappano i fiumi dai fiumi. Realizzo venti frantumati che vogliono soffiarti. Genero universi bloccati in bolle di carta, parlo e scrivo per Te, di Te e per Te. E sono giornate fatte di notti e di acqua e di freddo. Giornate che mi rendono felice di esserci ancora, in questo universo, che non ha più nettare da succhiare. E’ accaduto tutto in fretta. Tu ed io. Mi sento un po’ fra-stornato. Perché? Forse mi sto innamorando, come una prima volta. Come quando avevo tredici anni. È stata un’annata dura. Un’ annata che va morendo. Un’ annata del cazzo.Un’ annata di un pezzo di me, andato via. Dovrò imparare a lasciarmi, a non lasciarti andare via.Mai. Prima che la luce del tramonto si trasformi in un’eternità passata, dal fra-breve inevitabilmente costruito da oblungo riposo.
Vorrei scattarti una foto. Dipingerti un quadro. Scriverti parole innervate che, a volte, siano disarmoniche. Vorrei comporre una canzone per te, fabbricarti una corona, rilegarti un libro. Elaborare una poesia. No, una poesia no. Perché non so scriverla. Congiuntamente, però, io e te, potremo mischiare il blu pavone, mano sulla mano, un colore paglierino, oppure l’arancio. L’ocra e il vermiglio, pelle sulla pelle. E poi il bianco e il nero.Comprendere cosa tu ed io siamo. Anche se io lo so, e tu lo sai. Interpretiamo noi, lampi di consapevolezza. Dentro e fuori, con la stessa sfumatura, con la stessa intonazione, con gli stessi respiri, mentre camminiamo in mezzo a folte diramazioni di arbusti che ostruiscono la via. Ho gli occhi rossi e le gambe stanche, ma non mi fermo, consapevole di non volerti mai perdere. Perché tu mi abbracci. Con la tua essenza, chiusa in ampolle, che ad una da una si romperanno per sciogliersi nell’etere, in un attimo, affinché tu riemerga a nebulizzare il mio universo lontano. L'effetto giroscopico è nella sua fase apicale, tra un paio d’ore sarò di nuovo a casa, a rintracciare la mia stagione. Intanto ti guarderò attraverso il cielo, oltre il burrone. Nell’ascesa sciolta dei cormorani bianchi, nel chiarore zafferano di interminabili asterischi, e di tutti i baci rossi che vorrei darti.
Avevamo buttato giù un paio di shottini, io e il mio amico. La destinazione dei nostri deliri era l’Art Cafè. Pioveva silenziosamente. Le strade erano viscide. Un taxi nel curvare si era sbragato a ridosso di un lampione. Nulla di grave. Era uscita una ragazza che aveva una gamba ingessata. Cercava di alzarsi tenendosi con le braccia appoggiate a due stampelle. Sembrava una che conoscevo. Una di milioni di anni fa; quando ero ancora, uno spadaccino al servizio del Re Luigi nonmiricordoilnumeroromano. Mi sono avvicinato. Le ho chiesto se aveva bisogno di aiuto. Mi ha risposto di sì, ringraziandomi. Mentre la tiravo su, l’odore di giovane donna, mi ha riempito le narici e irrorato le vene. Era aggrappata a me. Ho avvertito il suo seno pieno e accogliente premermi dentro la carne. Avrei potuto tenerla così per tutta la vita, senza trucchi e privo del nulla, come lei. Forse. Le ho chiesto se doveva percorrere tanta strada. Mi ha indicato un portone a pochi passi da noi. L’ho accompagnata fino all’ingresso e mi ha ringraziato. Mi sarebbe piaciuto che mi dicesse di rimanere con lei, lasciando da solo quel coglione del mio amico a ubriacarsi da solo. Vieni su, Mr. Klein, ti porterò con me oltre l’arcobaleno, toccandoti come un tempo. Sono rimasto li, invece, fermo, a sbattere le brocchette per un po’. In piedi al mio passato, arrivato dal nulla; che per me, come al solito, è a una rotazione dal buio cinicamente dilatato. Stai bene Klein? Sembri strano? Mi ha chiesto l’amico. Sì. Tranquillo. Ho risposto. Starò ancora meglio quando sarò all’Art Cafè. Abbiamo proseguito, in silenzio, sulle strade scivolose.
La sera quando rientro a casa, recupero la mia vita. E’ sempre stato così. Mi piace quel silenzio che arriva giù trascinando a laccio la mia agitata solitudine. Ed è una di quelle sere, mentre sto per iniziare un viaggio interstellare, che un ebete biondo dalla tv si mette a denocciolare le ragioni per cui, secondo la gente comune, vale la pena di vivere. Sono le ragioni delle persone vere, quelle che vivono e respirano l’esistenza di tutti i giorni. Mi incuriosisco! Scopro che costoro mettono all’apice dei propri desideri cose come: migliorare il mondo, realizzarsi nel lavoro, contemplare i tramonti, innamorarsi e unirsi per il resto della loro vita ad una persona; la fame nel mondo, l’amicizia, la pasta con il pomodoro. Insomma un inventario caleidoscopico di dolcezza e gratificazioni che la gente ha posto come sublimazione ai propri sogni. A quel punto mentre sto per decollare mi rendo conto, che a me, queste cose non hanno mai suscitato grandi interessi. Eppure io sono normale, reale, vero! Maledizione! Brividi semifreddi mi attraversano la schiena, accompagnati da sofferte nenie transiberiane. Rifletto e penso che sia colpa del mio vivere nella fastidiosa, intollerabile convinzione, secondo la quale, l’animo antropico è gonfio di stomachevoli fetori giudiziali. Oppure perché a me bastano poche cose. Tipo tornare a casa infelice e scazzato. Immergermi dentro il perimetro dei cazzi miei, il tutto condito da una aspra e leggera insufficienza. Riscontrare voragini smisurate e sconnesse. Godere delle mie giornate vuote con la serenità di chi si trastulla dentro l’opificio di Dio, consumandone poi, tutti gli eccessi. Titubare dell’intelletto di quelli che sono valutati intelligenti da tutti. Non guardare PIù gli occhi persi di mio padre e, ultimamente, il piacere di andare a letto con le donne degli altri.
Ci siamo attraversati?
Non lo so. Ma è da tempo che non ci si incontra. Da quando non ci sei.
Certe volte sparire è un grandissimosegno d'affetto.
Forse. Però a me interessa solo sapere che ci sei.
Mi piace ancora leccarti di parole.
Perché?! Che ti succede quando non ci sono?
Succede che non sbadiglio più.
Per i miei baci o i tuoi desideri?
Entrambi. Io, se si può, voglio tutto.
Io voglio tutto. Anche se non si può.
Dimmi una cosà però: hai smesso di correre?